Alessandro Dondi, Dall’uomo esposto al soggetto esposto. Il concetto di interfaccia in alcuni filoni di riflessione sulla tecnica dal Settecento a Marcel Mauss, Mimesis, Milano-Udine 2023.
ISBN 9788857596624
Ciò che vi è di più profondo nell’uomo è la sua pelle
P. Valery
Nella nostra quotidianità il riferimento all’ambiente compare in maniera diffusa nei dibattiti, nelle opere scientifiche e artistiche, negli spazi di divulgazione, penetrando all’interno degli spazi affettivi individuali e all’interno di teorie e prassi politiche. L’ambiente è divenuto un elemento che sempre di più “importa”. Esso è oggetto di interesse, entra nel campo dei valori che orientano le abitudini e i sentimenti, entra nel mondo della cultura, diviene l’oggetto di una contesa politica tra chi ne afferma l’importanza e chi, invece, la vuole negare. L’ambiente è oggi un elemento con il quale diventa impossibile non rapportarsi, soprattutto per il fatto che la nozione che lo contraddistingue è associata all’idea che la nostra stessa azione, l’azione antropica, non le sia estranea. Tanto l’ambiente è concepito come un elemento indispensabile alla vita come la conosciamo, quanto è concepito come qualcosa di fragile, che tramite la prassi umana viene modificato, alterato, degenerato. L’ambiente entra nel campo assiologico, di “ciò che più importa”, ma vi entra come elemento fragile. Vi entra attraverso la sua crisi, che oggi si manifesta in modi che le scienze nominano in vario modo e, tra questi, quelli più diffusi sono quelli di crisi ecologica, crisi climatica, antropocene, e che noi riassumiamo con la nozione di crisi ambientale, per indicare una situazione nella quale l’ambiente di vita sulla terra è gravemente compromesso e connotata dal rischio estremo di non poter più tornare a uno stadio nel quale gli equilibri naturali possano ristabilirsi.
La crisi ambientale rappresenta oggi un’evidenza scientifica, un fatto diagnosticato; un evento limite che distingue due epoche, una nella quale l’ambiente non era in crisi e una successiva in cui l’ambiente degenera; un effetto, la cui causa è l’azione antropica; un elemento di contesa rispetto a differenti responsabilità; un valore, un interesse tramite il quale orientare la politica. Proprio il concetto di crisi è ciò che fa emergere l’ambiguità, la problematicità, la conflittualità prodotte dal riferimento all’ambiente che è diventato elemento problematico attraverso il quale concetti, nozioni, periodizzazioni sono oggetto di ridefinizione.
Il concetto di crisi è stato fatto risalire a usi medici, giuridici, politici e infine storici, a partire dalla fine del ‘700. Reinhart Koselleck ha ricostruito l’evoluzione di questo concetto e tentato di rintracciarne, in più di un’occasione, gli elementi distintivi, inquadrandolo attraverso il suo presente, connotato esso stesso da una crisi, quella che Gennaro Imbriano e Silvia Rodeschini riconoscono nello “spazio dischiuso dalla Seconda guerra mondiale”[1]. Il concetto di crisi viene misurato da Koselleck attraverso il suo uso inflazionato nella modernità e il suo valore specifico di concetto storico. Ma l’uso greco che egli ricostruisce può fornire più di un motivo per utilizzarlo, proprio nel suo valore concettuale, per pensare alla crisi ambientale:
κρίσις deriva dal verbo greco κρίνω: “separare”, “dividere”, “scegliere”, “giudicare”, “decidere”; mediale: “misurarsi, competere”, “litigare”, “lottare”.[2]
L’ambientale nella sua crisi, ci pone di fronte a divisioni, scelte, giudizi, conflitti.
Nel suo Critica illuminista e crisi della società borghese[3], Koselleck, mostrando il legame stretto tra la crisi politica, rappresentata dalla Rivoluzione francese, e la critica illuminista, ha evidenziato come entrambe fossero connesse alla crisi che si è prodotta nel secolo precedente, ossia la crisi rappresentata dalle guerre di religione che è stata portata alla sua soluzione dall’istituzione degli stati assoluti. L’assolutismo ha prodotto quella separazione tra politica e morale, tra cittadino e uomo per la quale il cittadino è divenuto soggetto allo Stato, mentre l’uomo è stato consegnato a una sfera morale privata. E l’uomo, a differenza del cittadino, ha potuto coltivare, in ambito separato e privato, le proprie opinioni, divenendo l’origine della futura classe borghese e dell’attività critica prodotta dalla Repubblica delle lettere illuminista. Per Koselleck, tuttavia, l’Illuminismo non ha saputo né potuto elaborare concettualmente la nozione di crisi; a tale riguardo così si esprimono Rodeschini e Imbriano:
La critica illuminista […] non a caso espunge il problema della “crisi” dalle sue riflessioni, poiché la guerra civile europea viene costantemente nominata in un modo differente, cioè con il termine “rivoluzione”, a voler indicare un processo progressivo e lineare (laddove “crisi” o “guerra civile” evocherebbero invece scenari meno edificanti). Che la critica illuminista non concettualizzi il nodo della crisi, dunque, non sorprende: nella visione progressiva del futuro, nella palingenetica vittoria finale della morale sul dispotismo, non vi è spazio per una compiuta dottrina della crisi.[4]
L’idea di progresso, l’idea di una storia lineare prodotta dalla filosofia della storia come giustificazione degli esiti necessari e universali dell’uso della ragione, sarebbe dunque un ostacolo per concepire la crisi e, successivamente, ne produrrebbe l’evitamento tramite un uso inflazionato.
Se, per Koselleck, “[i] profeti del progresso […] non compresero però il fenomeno della crisi in quanto tale”[5], è perché “[o]gni crisi si sottrae alla pianificazione, alla guida razionale che è un portato della fede nel progresso”[6], ma tra gli illuministi vi sono stati pensatori che hanno avuto un’idea profondamente diversa della storia:
Il termine non compare all’inizio nelle pubblicazione dei progressisti ma nei filosofi che credono in una costruzione ciclica della storia: in Rousseau, il quale vedeva chiudersi col “dispotismo” il cerchio che avrebbe portato ad un nuovo stato di natura, nel suo odiato amico Diderot, il quale diceva già che l’uomo per tutta la vita reca dentro di sé una guerra civile. La concezione ciclica della storia consentì invece di concepire una svolta, una peripezia per la quale non vi è posto in un progresso che sia programmato.[7]
L’Illuminismo, secondo questa lettura, è stato un movimento non univoco, ha concepito la storia sia come un percorso necessario e progressivo, sia come storia delle crisi, che è una storia non lineare, per la quale le ambiguità e i conflitti del passato possono essere riaperti e reinterpretati alla luce della crisi di volta in volta attuale. La crisi politica della fine del XVIII secolo e la nuova coscienza che esprime portano l’aspirazione dell’elemento morale a diventare politico e a stagliarsi sulla separazione tra l’uomo e il cittadino perseguita dall’assolutismo. La separazione tra morale e politica è ciò che il progetto della loro convergenza porta all’evidenza.
L’epoca dei lumi è stata anche l’epoca della critica che ha potuto esercitarsi attraverso la produzione di divisioni dualistiche:
la “mentalità” dualistica – un’antica eredità sul piano della storia religiosa – in virtù della critica politica indiretta e poi infine diretta in essa immanente, è espressione e interpretazione di un avvenimento storico: la nascita del mondo borghese.[8]
Se il pensiero politico illuminista ha agito tramite una mentalità dualistica, occorre rilevare come nel pensiero della medicina e della scienza naturale è maturato, in riferimento alla natura dell’uomo, un dualismo ambiguo che non è segnato universalmente dalla marca dell’esclusione reciproca dei due corni che lo costituiscono. L’antropologia settecentesca, sottesa a teorie mediche e scientifiche, ha pensato l’uomo come composto da due aspetti, quello fisico e quello morale e tramite questa dualità ha potuto aprire a forme originali di comprensione degli ambienti specifici ai due aspetti, l’ambiente fisico e l’ambiente sociale[9].
La crisi ambientale, che ci interpella nel nostro presente, può essere utilizzata come matrice interpretativa della nostra contemporaneità, aprendo e provocando le ambiguità e i conflitti del passato dentro una storia critica, una storia non lineare delle crisi, che vede il passato stagliarsi davanti a sé e dal quale può afferrare movimenti e concetti che non hanno smesso di produrre significati. L’ambiente assume oggi la funzione di matrice critica tramite la quale il pensiero filosofico si trova di fronte alla necessità di elaborare dei concetti con i quali orientarsi e riorientarsi nei confronti del presente e del passato.
In quest’ottica l’odierna crisi ambientale non ha eliminato e riassorbito in sé le crisi precedenti. La crisi sociale, che è stata oggetto di interesse teorico e pratico nel XIX e nel XX secolo, oggi può essere provocata per il suo valore ambientale e portata a significare i limiti e le opportunità che una visione sociocentrica ha significato.
La crisi ambientale permette di riaprire degli ambiti di valore e di interesse nel presente, orientandoli secondo una dimensione che non si può ignorare; essa permette di riaprire il nostro passato, provoca una reinterpretazione e un riorientamento delle teorie e delle prassi che lo hanno precorso. Tramite la crisi ambientale anche la crisi sociale viene a essere oggetto di reinterpretazione mostrando come certe teorie risultino superate e altre ancora di valore, come il dibattito sull’ecomarxismo dimostra.
Non è nostro intento indagare la realtà o la scientificità della crisi ambientale, tantomeno mostrare la legittimità delle politiche che la riguardano. Nei capitoli che seguono si vogliono provocare dei concetti, delle nozioni, delle periodizzazioni, delle teorizzazioni, proprie del nostro passato, alla luce della crisi ambientale attuale. In questo percorso si assume che “l’ambiente non è una nozione recente”, come non è recente l’idea dell’ambiente come qualcosa “che importa” o come qualcosa che inerisce l’uomo a tal punto che il rapporto tra i due è di trasformazione reciproca.
La crisi ambientale che caratterizza il nostro presente è la matrice della provocazione di un passato che rappresenta sia il momento in cui la crisi ambientale è stata originata sia il contesto che ha fornito le basi concettuali attraverso le quali oggi possiamo pensarla.
Ci collochiamo così nel solco della rivendicazione, espressa da Manlio Iofrida,
dell’esigenza che la questione ecologica sia oggi ridefinita su una base eminentemente filosofica.[10]
Per Iofrida, la crisi economica del 2007, i rivolgimenti geopolitici che si sono profilati negli ultimi anni “hanno determinato un cambiamento radicale della situazione e, conseguentemente, anche della visibilità sull’epoca precedente”[11], che, con il delinearsi della centralità della questione dell’ecologia, porta alla ridefinizione del “problema centrale” della filosofia:
Infatti, si tratta di storicizzare e sottoporre a critica il modello di produzione occidentale, e, messe finalmente da parte le vecchie illusioni sulla rivoluzione come salto nell’assolutamente altro, di elaborare, con la massima modestia, col massimo empirismo e col massimo pragmatismo, un modello alternativo. Di fronte a questi compiti, non si può pensare di ridurre l’ecologia a una dimensione meramente tecnica, non può bastare la scienza: se si tratta di elaborare una nuova forma di coscienza e una nuova forma di vita, di costruire una nuova convivenza fra il mondo umano, mondo animale e mondo naturale, il ruolo della filosofia non è essenziale?[12]
La ricerca di un nuovo paradigma per la filosofia va di pari passo con il ripensamento del nostro passato attraverso l’“inquadramento filosofico dell’ecologia”[13].
Parlare di crisi ecologica dal punto di vista tecnico significa studiare e agire sulle cause per intervenire sugli effetti, poco importa che le cause e gli effetti siano connessi in modo meccanicistico, deterministico, aleatorio, complesso, quantistico. Ci sono gli effetti e ci sono le cause, ma descrivere i legami e le connessioni non significa risalire attraverso un regresso all’infinito perché significherebbe allo stesso tempo adeguare il reale all’idea dell’“ambiente in crisi” e a forme di rapporti ambientali ideali, che devono, come prima cosa, essere creduti in quanto veri[14]. Un inquadramento puramente tecno/scientifico dell’ecologia lascerebbe alla filosofia un ruolo di convincimento o di comunicazione, in questo modo si rinnoverebbe quella “grande separazione” tra scienze naturali che dicono in vero del mondo non-umano e scienze umane relegate all’ambito sociale.
Per Rousseau, spiegare la povertà significa rendere ragione di un mutamento (il divenire povero) che avviene senza mutamento. Riuscire in questo intento non significa risalire dall’effetto alle sue cause, quelle per cui i poveri, determinati poveri, singoli poveri sono divenuti tali, in quanto è la ricerca, il perseguimento, l’accumulo della ricchezza da parte di alcuni, che mutano divenendo ricchi, che fa sì che altri, esclusi dal mutamento, divengano poveri. I poveri divengono tali mutando senza mutamento, ma non è cercando le cause del loro divenire che si rende ragione del loro stato perché in realtà non sono mutati. Occorre invertire, criticamente, la catena delle cause e degli effetti. La ricerca ecologica, orientata filosoficamente, è rivolta alle concretizzazioni degli effetti per comprenderne non le cause, ma i rapporti con ciò che le circonda, con ciò a cui sono esposte e con ciò a cui sono interfacciate. Io posso affermare di “essere povero” del fiume nel quale non ho mai potuto fare il bagno perché mio padre ha potuto imparare a nuotare nello stesso fiume che io posso solo guardare come un semplice ostacolo da superare o apprezzare dal punto di vista estetico e che, invece, lui ha potuto guardare come quel posto che l’estate successiva avrebbe potuto accoglierlo assieme alle sue compagnie. La filosofia ecologica non costituisce un racconto che deve convincere della verità delle cause e degli effetti. L’ecologia filosofica si colloca sulla cresta di fatti e di storie relativi ai “mutamenti senza mutamento” che sono le interfacce per le quali ci sono continue e labirintiche trasformazioni tra interno ed esterno, tra divenire soggetti e divenire oggetti, senza che tali interfacce siano ascrivibili all’ordine del regresso all’infinito delle cause. L’ecologia indagata dalle scienze naturali costituisce, non un piano di verità, ma uno specifico piano di interfacciamento: essa ci avverte, ci sensibilizza e allo stesso tempo disinibisce o cerca di disinibire determinati modi di esistenza, così come lo fanno le lotte ambientaliste e i conflitti che emergono nei fenomeni di migrazione (provocati da fenomeni sociali, ma anche dal mutamento climatico) o di delocalizzazione delle attività produttive, che occorre descrivere e ricomporre in un quadro che non nella loro verità, ma nella loro realtà, sono già di crisi ambientale, come già di crisi sociale e già di crisi politica. L’interfaccia, come mutamento senza mutamento, come trasformazione, è sempre politica, sociale, animica, come è sempre ambientale. Il nostro presente di crisi ambientale avverte, pre-occupa del rapporto tra le forme di interiorità, di interiorizzazione, di soggettivazione e quel loro esterno complemento che è non-umano, ed è complemento proprio per il fatto di non essere pre-disposto per l’uomo. Per l’ecologia filosofica non c’è autonomia dell’uomo, Dio, ragione di Stato che possa pre-disporre l’esterno, gli ambienti, per l’uomo. L’interno e l’esterno sono però sempre già disposti, interfacciati, tramite mediatori e dispositivi che fanno sì che vi sia sempre una trasformazione, un’esposizione.
Dal nostro presente di crisi ambientale è possibile rintracciare delle figure concettuali che, nel passato, hanno rappresentato l’inerenza degli enti con il loro ambiente e, tra questi, l’inerenza dell’uomo con il suo ambiente di vita.
Sono due le principali figure attraverso le quali si intende riprendere un rapporto con il nostro passato letto attraverso la crisi ambientale: la figura dell’interfaccia come ciò che demarca un rapporto di inerenza e di separazione tra un interno e un esterno che hanno, tra loro, un rapporto necessario e tuttavia contingente, e la figura della relazione di “esposizione”, tramite la quale si vuole pensare a forme di soggettività vulnerabili, esposte alle relazioni e ai concatenamenti, nei quali sono inserite e che tuttavia non possono che essere origine di ulteriori forme di esposizione andando a modificare altre soggettività e l’ambiente di vita comune.
Sarebbe possibile concepire un’ulteriore figura, non di minore importanza, che appare in trasparenza studiando la relazione di esposizione: è la figura della “resistenza” che sarebbe necessario interpretare nei suoi molteplici valori e significati. Nei testi citati lungo il corso dei capitoli che seguono è possibile rintracciare vari usi della nozione.
L’interfaccia e l’esposizione sono figure concettuali che oggi possiamo rintracciare nel nostro passato e attraverso le quali è stato pensato il rapporto di inerenza con l’ambiente naturale; inoltre, si tratta di figure che ancora oggi utilizziamo in molteplici contesti teorici per pensare al rapporto con l’ambiente mediato dalla tecnica.
La crisi ambientale è la matrice critica attraverso la quale poter riprendere contatto con un passato che non è stato un passato di misconoscimento del valore dell’ambiente e delle relazioni tra gli enti, gli organismi, gli uomini, le soggettività, le società e ciò che li circonda.
Analizzando le teorie settecentesche dell’igiene e le riflessioni sulla tecnica tra ’800 e ’900, si vedrà come in quegli ambiti fu attribuita una notevole importanza all’ambiente e al rapporto dell’uomo con esso. Per questo motivo, oggi possiamo provocare le figure e le nozioni che appartengono al nostro passato per rendere conto della crisi ambientale attuale. Ma se l’ambiente ha rivestito un interesse per la sua inerenza con la vita e con l’uomo, ciò non significa che non abbia costituito l’oggetto di conflitti per il quale differenti modi di vita, diverse soggettività, diverse epistemologie e diverse ontologie si sono scontrate. La provocazione del nostro passato è la provocazione, da parte del presente, di figure che non sono invenzioni che vengono dal nulla, ma che hanno una storia, sebbene una storia precaria e provvisoria.
Negli anni Quaranta del ’900 Leo Spitzer e Georges Canguilhem, autonomamente l’uno dall’altro, si sono interessati alla nozione di ambiente e alla sua storia. Entrambi hanno prodotto degli studi che fanno risalire la nozione di ambiente alla tradizione della filosofia e della medicina dell’antica Grecia, per le quali l’ambiente è definito sia come ciò che avvolge e protegge (périékhon), sia come ciò che media (meson, metaxu) i rapporti tra gli enti. Per gli antichi, l’ambiente ha una connotazione affettiva e valoriale, come “ciò che avvolge e protegge”; nella storia, tale connotazione passa attraverso il Medioevo e il Rinascimento nelle teorizzazioni dell’“anima del mondo” e delle influenze e simpatie cosmiche.
Con l’avvento della fisica moderna a questa concezione se ne sostituì un’altra in cui l’ambiente era visto come il luogo “indifferente” e omogeneo di azioni puramente deterministiche e meccaniche. Tuttavia, l’idea newtoniana dell’“azione e reazione” viene successivamente utilizzata dalle scienze biologiche, geografiche e sociologiche per produrre teorie “biocentriche”, per le quali l’ambiente non è considerato come luogo inerte, ma orientato secondo i valori vitali degli organismi che lo abitano.
Nelle nozioni di “ciò che avvolge” e “ciò che media” si vede una prima figurazione dell’interfaccia come relazione tra un interno e un esterno, per la quale il passaggio tra i due lati consiste in un passaggio ad altro mezzo, in una trasformazione per la quale c’è separazione e allo stesso tempo inerenza. Con l’Illuminismo, con la scienza e la tecnica contemporanee e con la nascente industrializzazione, emerge come i valori vitali dell’ambiente non siano dati una volta per tutte ma siano soggetti a modificazione. La modificazione delle condizioni di vita di intere popolazioni nello sfruttamento coloniale, nello sfruttamento delle risorse naturali e agricole da parte di una scienza e una politica accentratrici, ha messo in evidenza come l’ambiente sia stato il luogo di conflitti tramite i quali non solo si sono modificate le condizioni oggettive di vita delle popolazioni, ma anche si sono prodotte delle soggettività disinibite e disponibili nei confronti di mutuazioni di tecniche e di regimi di vita estranei ai valori tradizionali.
La nozione di “esposizione” dell’uomo all’ambiente, appartenente alle teorie settecentesche dell’igiene e della medicina vitalista francese, è una delle figure attraverso le quali è stato pensato il rapporto tra la “natura” degli organismi e il loro complemento “non naturale”, inteso come ciò che è necessario alla conservazione della vita e tuttavia esterno ad essa (l’aria, i cibi, i comportamenti, i climi, ecc.). La particolare nozione di esposizione ha rappresentato un rapporto non deterministico e non univoco tra gli organismi e ciò che li circonda. Attraverso la teoria delle choses non naturelles, nel discorso e nella prassi medica, è stato concepito un rapporto di inerenza e complementarità tra gli organismi viventi e l’ambiente nel quale né gli organismi né l’ambiente possono essere definiti aprioristicamente tramite una supposta loro essenza, ma sono definiti dalla relazione stessa. La complementarità tra gli organismi e l’ambiente ha dato luogo a teorie e prassi biopolitiche e mesopolitiche di governo degli uomini attraverso il governo “delle cose dell’igiene”, come emerge dagli scritti del medico Jean-Noël Hallé, interessato a un’igiene pubblica adatta alla creazione di uomini forti per l’esercito e le colonie. Ma è stata anche l’occasione per l’elaborazione di teorie “ecologiche”, come quella del medico La Caze, per le quali la medicina diviene la scienza dell’uomo che studia gli scambi vitali tra l’interno e l’esterno degli organismi non solo negli aspetti fisici, ma anche psichici e morali.
Il paradigma cartesiano delle due sostanze, estesa e pensante, ha subito, nel XVIII secolo, una sostituzione con la teoria della relazione tra gli aspetti fisico e morale dell’uomo che si è prodotta nelle scienze mediche e nelle scienze naturali. Attraverso questo cambiamento è stato possibile reinserire l’importanza dell’ambiente nelle concezioni relative all’uomo. Al posto di due sostanze, vengono individuate delle relazioni tra un interno vitale e morale e gli ambienti fisico e morale o sociale.
La forma duale, rappresentata dagli aspetti fisico e morale, tuttavia, ha prodotto due modi differenti di pensare l’interiorità assieme alla sua esteriorità. Da un lato, Buffon ha elaborato la nozione di homo duplex e, assieme ad essa, ha tematizzato “il passaggio intermedio” come il luogo problematico nel quale l’aspetto morale e attivo dell’uomo incontra e si oppone all’aspetto fisico. Andando alla ricerca di una soluzione per questo contrasto, Buffon trova la soluzione per attenuarlo nel radicamento dell’uomo nel suo ambiente specifico, che è quello morale e sociale, sottomettendo l’ambiente fisico alle proprie necessità. L’ambiente fisico viene visto così come l’ambito che pertiene al solo animale. Dall’altro lato, Rousseau ha tematizzato esplicitamente la nozione (mutuata dall’igiene) di “esposizione”, per la quale l’uomo, come agente libero, è esposto a continue modificazioni indotte dai rapporti con “le cose” e “le persone”. Per Rousseau l’uomo non è esposto passivamente all’ambiente fisico e morale ma “si espone”, esercita la propria libertà nell’esposizione di sé, che tuttavia non consiste in una forma di possesso e padronanza della propria libertà, ma nel riconoscimento dei valori vitali che, tramite il sentimento radicato nella propria vita corporea, diventa il metro di giudizio morale nei confronti della vita in società. Se, tramite il suo corpo, l’uomo diviene misura della propria esposizione all’ambiente, altrettanto è sul suo corpo che l’uomo vive la dissociazione che produce la vita moderna in società. L’uomo di Rousseau è un uomo esposto, nel senso che, tramite il suo corpo e i valori vitali che incarna (il sentimento di sé), ripiega la razionalità, che l’uomo matura nell’ambiente sociale, verso il sentimento. L’uomo è esposto inoltre allo sguardo dell’altro, nel senso che non può che ripiegare su di sé anche l’immagine che gli altri se ne fanno. Infine, l’uomo è esposto alla strumentalizzazione che la vita in società fa del suo corpo e del suo potere di agire che, invece di essere uno strumento d’azione volontaria, diviene strumento in mano d’altri tramite la divisione del lavoro.
Nel rapporto tra Buffon e Rousseau emerge una profonda differenza nella concezione dell’ambiente. Se per Buffon l’uomo è un essere duplice, che può trovare la propria unità radicandosi nel rapporti morali e sociali, dominando l’ambiente fisico, per Rousseau l’aspetto morale e quello fisico dell’uomo non possono essere separati, motivo per cui il ripiegamento sul sentimento di ciò che è prodotto dall’ambiente sociale trascina con sé anche il giudizio nei confronti dell’ambiente fisico di vita, da cui scaturiscono le critiche nei confronti dell’insalubrità dei luoghi di lavoro, l’elogio dell’ambiente di campagna rispetto all’ambiente di città e altri giudizi analoghi.
Nella prima metà del ‘900, nell’elaborazione teorica del rapporto tra uomo e ambiente il ruolo delle riflessioni sull’igiene cede il posto alle teorie sulla tecnica e sul lavoro. In particolare, nel pensiero di Marcel Mauss è possibile ritrovare una concettualizzazione che, similmente alle conclusioni cui giunge Rousseau, non separa tra loro un ambiente fisico, indifferente, e un ambiente morale, luogo di formazione dell’interiorità e della soggettività dell’uomo. Per Mauss, tramite le riflessioni sulla tecnica, come per Rousseau, tramite l’elaborazione delle teorie dell’igiene, l’ambiente di vita, l’habitat, è ciò che l’uomo produce producendo contemporaneamente sé stesso. Tra le istituzioni sociali, la tecnica è ciò che costituisce l’interfaccia sia tra l’uomo e la natura, sia tra l’individuo e la società, nella particolare forma delle tecniche del corpo. L’individuo, per Mauss, non è un ente sostanziale, ma consiste in una continua soggettivazione prodotta dentro al campo sociale di cui è parte. L’educazione e il dressage, attraverso i quali l’individuo diviene un soggetto sociale, sono ciò che permette anche la sua soggettivazione individuale, ciò che apre la possibilità di costituire un elemento di originalità e differenza. Questa dialettica tra individuale e sociale delinea una figura dell’interfaccia, che, da un lato, consiste in un’interiorità e, dall’altro, in un’esteriorità tanto inseparabili quanto distinte, perché tra l’esterno e l’interno c’è un passaggio, una trasformazione e non un medium omogeneo. Se questa dialettica tra l’interno individuale e l’esterno sociale è evidente, ad esempio, nella costituzione di soggetti linguistici, che tanto sono “originali” quanto sono “posseduti” dalla propria lingua, essa assume un particolare valore nel caso delle tecniche del corpo, ossia di quegli habitus che coinvolgono la corporeità dell’uomo e nei quali il rapporto con l’ambiente sociale e quello con l’ambiente fisico convergono in un’ambientalità generale.
Tramite la crisi ambientale è possibile rintracciare e provocare delle “figure”, relative a rapporti di inerenza tra l’uomo e ciò che lo circonda, che dimostrano come l’ambiente stesso non sia stato ignorato nei periodi storici che ci hanno preceduto. L’ambiente è stato un elemento fondamentale delle teorie mediche, antropologiche, sociologiche e filosofiche del nostro passato. Per questo motivo non possiamo pensare al nostro momento storico come a un momento di chiarezza su valori e rapporti fondamentali che si oppone a un passato di oscurità: l’occasione della criticità propria della crisi ambientale è l’occasione della provocazione di figure provvisorie, come quelle dell’esposizione o dell’interfaccia, che permettono di riaprire il nostro “passato ambientale”, nel quale l’ambiente è stato pensato come “esterno” necessario e complemento contingente di varie forme di “interiorità”.
- R. Koselleck, Krise, in Geschichtliche Grundbegriffe. Historisches Lexikon zur politisch-sozialen Sprache in Deutschland, a cura di O. Bruner, W. Conze, R. Koselleck, vol. 3, Klett-Cotta, Struttgart 1972-1997; tr. it. di G. Imbriano, S. Rodeschini, Crisi. Per un lessico della modernità, Ombre Corte, Verona 2012, p. 20. ↑
- Ivi. p. 32. ↑
- R. Koselleck, Kritik und Krise. Eine Studie zur Pathogenese der bürgerlichen Welt. Karl Alber, Freiburg-München 1959; tr. it. di G. Panzieri, Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna 1972 ↑
- R. Koselleck, Crisi, cit., p. 22. ↑
- R. Koselleck, Critica illuminista e crisi della società borghese, cit. p. 204. ↑
- Ibid. ↑
- Ibid. ↑
- Ivi. p. 137 ↑
- Se tramite la separazione dell’uomo dal cittadino è possibile ripercorrere l’archeologia della biopolitica, tramite la separazione dell’aspetto morale da quello fisico dell’uomo si rende possibile l’archeologia della mesopolitica.“La mesopolitica, cioè la strategia volta a governare gli uomini attraverso la pianificazione del loro ambiente, appare come un progetto politico pienamente assunto, reso possibile da una serie di conoscenze inedite riguardanti gli effetti dell’ambiente sui viventi. Lungi dal limitarsi al solo campo delle riflessioni filosofiche, questa strategia mesopolitica è infatti all’opera in molte pratiche moderne che vanno dalla sistemazione delle città all’acclimatamento dei coloni; essa viene esplicitamente sostenuta da medici, architetti e ingegneri desiderosi di esercitare un’azione sociale attraverso la trasformazione degli ambienti di vita [milieux de vie].” (F. Taylan, Mésopolitique. Connaître, théoriser et gouverner les milieux de vie (1750-1900), Édition de la Sorbonne, Paris 2018, p. 7). ↑
- M. Iofrida, Per un paradigma del corpo. Una rifondazione filosofica dell’ecologia, Quodlibet, Macerata 2019, p. 11. ↑
- Ivi. p. 10. ↑
- Ivi. p. 11. ↑
- Ivi. p. 14. ↑
- Sul rapporto tra reale e verità si veda E. Auerbach, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendländischen Literatur, Francke, Bern 1946; tr. it, di A. Romagnoli e H. Hinterhäuser, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1956, vol. 1, pp. 16-17